Angela Madesani
Nei lavori di Pierluigi Fresia viene spontaneo cercare di collegare l’immagine a quanto è scritto. È come se il nostro pensiero volesse per forza trovare dei collegamenti. Theory, come il titolo della mostra, è posto su un’ala. Di un rapace? Forse? O meglio l’ala bruna di un angelo? L’angelo è creatura prediletta da Rainer Maria Rilke, tramite tra il nostro mondo e ciò che sta al di là, in una condizione perpetua di soglia, come quella presente in molti lavori di Fresia: soglia dalla quale spunta la cima. Non esiste una sola verità. A farsi strada è il senso del dubbio. Gli angeli sono creature belle, ma il bello che cos’è se non il terribile al suo inizio, citando ancora una volta il Poeta? Quanto vediamo è solo una piccola parte della complessità dei fenomeni che restano sommersi. Per Fresia è un metodo di lavoro. Non gli interessa svelare tutto e forse non sarebbe neppure possibile: mera utopia. Le immagini che utilizza, pur avendo una struttura centrale, equilibrata non rappresentano mai la totalità dell’informazione. Allo spettatore è lasciato un ruolo attivo, la possibilità di entrare, di immaginare. Si tratta di una parte di qualcosa di più ampio, non tanto un dettaglio, quanto un frangente, una situazione che ci è dato conoscere solo parzialmente: il resto esiste, ma non è dato conoscerlo, vederlo. Il tentativo non è quello di giungere all’essenza dei fenomeni, sarebbe troppo pretenzioso, ma di dare almeno la sensazione di esserne venuti a conoscenza, di averli in qualche modo intravisti.
Del resto la fotografia stessa non è che un frammento di un flusso, di uno scorrere, la punta di un iceberg rispetto alla totalità. Per l’artista la fotografia è un’immensa nostalgia. Nostalgia di sensazioni, di sentimenti. Fresia vuole fermare degli istanti che gli è dato scorgere, come quando appunta una frase che lo colpisce, magari sentita per strada, un dettaglio che lo affascina. È un ascoltatore.
Non ci pare esagerato scomodare l’aggettivo poetico, a proposito del suo lavoro, in cui è l’evocazione di quanto si è provato, si prova, si percepisce.
Quanto non vediamo esiste, ma è nascosto. Non riusciamo a cogliere la totalità di quanto ci viene proposto: l’importante è avere la consapevolezza di quanto sta accadendo, del fatto che non ci troviamo di fronte all’interezza.
Come accennato prima, la scrittura non va certo intesa come didascalia dell’immagine, sono due cammini paralleli. Si tratta di frasi che Fresia ha trovato illuminanti, che possono aprire infinite prospettive, come in una figura sferica. Ogni frase può aprire a chi legge nuovi sentieri. È normale che una parola collegata ad un’immagine possa fare nascere un conflitto che bisogna risolvere attraverso delle relazioni. Viviamo in una società liquida e le relazioni sono veloci, prive di profondità, qui invece l’approfondimento è obbligato: è una necessità imprescindibile per potere comprendere. È la volontà di completare il significato primario con dei sovrasensi come nelle Homeric simile che Fresia cita.
In alcuni lavori sono figure geometriche colorate, che coprono una parte dell’immagine. Sono un modo per intaccare la possibile perfezione. Fresia ama spezzare l’equilibrio, irrompere nella perfezione, guastandola, in modo da sviare e da creare un certo imbarazzo, forse proprio per indurre ciascuno a trovare una propria cifra relativamente a quanto sta guardando.
L’opera non è finita nel suo presentarsi attaccata a una parete, deve continuare nel pensiero di chi guarda, Mark Rothko ne scriveva oltre mezzo secolo fa, ha una vita propria. Ognuno può collegare quanto vede al proprio immaginario. Fresia è affascinato dal fatto che possano nascere in tal senso delle storie, che lui non conoscerà mai e torniamo al sommerso dell’iceberg. Gli piace farsi da parte, in modo che le cose trovino un loro naturale sviluppo.