Gianni Caruso – Il Mito
Davide Coltro – Divenire Immutabile
Pierluigi Fresia – Azzeramenti di Assoluti
Alexander Hahn – Osservazioni Clandestine
a cura di Viana Conti
Pierluigi Fresia (Asti 1962, vive a Torino) è un artista contemporaneo la cui fotografia riflette uno sguardo frontale verso l’esterno, e uno sguardo mentale ed emozionale, verso la propria interiorità. L’autore inaugura, nella sua opera, due campi semantici, che mette in rotta di collisione: quello della parola, come epifania scritturale di un flusso di coscienza inaudito, e quello dell’immagine, come icona di un vuoto rammemorante, colmo di risonanze. Le sue parole nascono dalla necessità che le ha fatte nascere; le sue immagini nascono dall’inevitabilità dello scontro con le cose: la loro interazione scaturisce dal materializzarsi e smaterializzarsi di aspettative, attivate da una macchina desiderante. Scattando immagini in cui si tende a realizzare uno sfondamento dello spazio, per iscrivervi, in sovraimpressione, parole in cui si realizza un cortocircuito del senso, Pierluigi Fresia non cessa di lavorare a un non-romanzo, a un non-diario, a un quadro di ipotesi evenemenziali. In un clima di desaturazioni cromatiche, in cui vengono declinate le gamme dei grigi, tra i bianchi luminescenti della neve, i vapori cristallini della nebbia e le oscurità plumbee del bosco, viene costantemente cancellato ogni effetto stentoreo, retorico, lapidario, apodittico, tramite un processo, anche metaforico, di Azzeramento di Assoluti. Viene così a formalizzarsi una dimensione sospesa, silente, attutita, di multiversi naturali e scritturali, spaziali e temporali, psichici e sensoriali, di fluida consistenza. Un’ascendenza storica della cifra linguistica di Pierluigi Fresia, artista attivo dagli anni Novanta, si può trovare, con i debiti distinguo, in particolare dal punto di vista narrativo, nel movimento internazionale di neo-avanguardia concettuale, sorto a metà degli anni Settanta, denominato Narrative Art, in cui la pratica fotografica, recuperando una dimensione della memoria, si accompagna alla scrittura, mantenendo, in tal caso, un percorso parallelo, che sarà l’osservatore a far convergere, mentalmente, in unico momento espressivo, contribuendo così alla condivisione emotiva dell’opera.
Nelle reiterate inquadrature della centralità, nell’opera di Pierluigi Fresia, si percepiscono le potenzialità del cinema sull’immaginario collettivo, a partire dall’annuncio del titolo, dall’aspettativa dei nomi che seguono, dai campi lunghi delle immagini, dalla mise en abyme di una storia che sta per dipanarsi. In questo artista, come nel cinema di Alain Renais, a titolo di esempio, si avverte, tramite temporanee divaricazioni spaziali, temporali, fisiche e mentali, un percorso di andata e ritorno nello stesso luogo, per rammemorare e dimenticare, per apparire e sparire. A differenza del cinema, tuttavia, Pierluigi Fresia non racconta una storia: è storia, è presente-passato-futuro in un istante, quello, ancora una volta, dell’implacabile frontalità dell’opera. Praticando, con insistenza, un assetto centralizzato della rappresentazione, l’artista stesso diventa centro sorgivo da cui defluiscono rami che vanno a sfociare in un nulla infinito, in un fluire dove presenza e assenza si sfiorano e interagiscono senza rumore. Il ricordo e l’oblìo danzano in tondo sulla superficie delle parole e delle cose, non cessando di tessere un’elegia della differenza e dell’indifferenza. Pur ricorrendo, sul piano bidimensionale della fotografia, all’inquadratura frontale, l’artista parla di una sua ideale prospettiva sferica, che porge, a chi guarda, un punto, non una linea, di contatto, un appiglio di ritrovamento o un rischio di slittamento fuori campo, di scivolamento laterale, senza escludere una possibilità di rientro circolare. Le sue inquadrature hanno in sé una qualità performativa per cui, all’atto della contemplazione, se viste in sequenza, rivestono la natura dello stacco filmico (come ad esempio nel paesaggio, velato dalla nebbia, con un cane nero in transito, dalla verità al vero senza respirare o in quello innevato di un bambino molto precoce, votato all’adattamento, che suona come un’introspezione autobiografica); se osservate ad una ad una, si percepiscono come avanzamento verso il primo piano e, immediatamente, come arretramento virtuale in una dissolvenza, ora in bianco, ora in nero, come accade in quell’inquadratura, magnetico-simbolica, di un viale notturno con una casa gialla, al centro della prospettiva, il cui clima inquietante viene smentito dalla scritta everything is alright everyday is like SUNDAY, molto american way of life.
Benché questo artista si protesti, agli esordi, pittore, le sue immagini non sono mai retiniche, perché è la sua personale estetica, filtrata e pallida, che produce il paesaggio, un paesaggio a misura del suo autore, che l’alterità può condividere o non riconoscere. Nel Nome del Padre costruisce, scalando, una genealogia che esce dall’albero per configurarsi, di figlio in figlio, in una moltitudine formalizzata in un triangolo dalla base sempre più ampia, con un inciampo in un tumulo di terra o di pietra scura che sfocia tra i fili d’erba di un prato incolore. Pierluigi Fresia ha invitato l’invisibile ad affiorare, ha trascritto simultaneamente il profondo e la pelle delle cose. Contro il reportage, ha messo in atto un dispositivo di inabissamento dei nessi tra l’immagine e il testo, creando faglie di slittamenti, crepe da cui far scaturire l’inconoscibile, per far smarrire chiave e codice di identificazione.
Per un approccio al dispositivo che produce poesia in questo artista, può essere d’aiuto Gaston Bachelard, maestro anche di una poetica dello spazio da cui, evidentemente, neppure l’artista piemontese si assenta. Quando, infatti, Pierluigi Fresia invita l’osservatore a entrare in una prospettiva sferica è per includerlo in quello spazio di risonanze e rispecchiamenti che giusto Gaston Bachelard chiama retentissement e all’interno del quale il lettore, o lo spettatore, si sentono investiti, non solo di una potenzialità emotiva, ma anche creativa, come se di quell’opera fossero anch’essi ideatori e autori. Da un incontro/scontro di linguaggi scaturisce la duplice dimensione, ontologica ed esistenziale, dell’essere e del divenire dell’essere. Pierluigi Fresia dilata così la sua dimensione di autorialità fino a includervi l’altro, l’osservatore, autorizzato, dall’artista stesso, dallo statuto enigmaticamente aperto dell’opera, a proiettarvi e leggervi la proprio storia. Risiede, infatti, nell’intenzionalità partecipativa e trasmissiva di ogni sua opera, il fatto che questo artista non ne rivendichi l’esclusività, ma scelga, consapevolmente, di diventare occasione per un’elargizione e uno spossessamento. L’esito è, tuttavia, di riconoscibilità della natura ontologica ed epistemologica di questa sua pratica.
Pierluigi Fresia, allenato al ricorso ai paradossi ed agli ossimori (ricordava tutti gli oblii ad uno ad UNO), prima vissuti interiormente e poi generati esteticamente, gioca con la relatività degli assoluti fino a sopprimerli (per qualche ora fummo IMMORTALI e ancora nominammo il mondo POI gli dei). Con il suo arsenale di strumenti, materiali e immateriali, ha misurato il vuoto, l’ampiezza del dramma (il diametro di una tragedia è approssimativamente un metro e mezzo) sembra aver contabilizzato l’incommensurabile comela sabbia, il flusso del mare, la durata del sonno e della veglia, la distanza dell’orizzonte, il colmo del desiderio. Sovente ha soppresso se stesso, nel dialogo con le cose, lasciandosi parlare da sensazioni senza storia e senza nome. Poi, nel folto del bosco ha incontrato il suo immaginario, nella radura le sue incertezze, nel deserto la presenza della sua ombra.
Maestro di cesure linguistiche, di ritagli di senso, di situazioni abnormi, di slittamenti percettivi e temporali, Pierluigi Fresia ha scritto il pensiero sopprimendone la logica, la causalità, la verosimiglianza, ha disseminato sul campo dell’opera, resti incongrui, domande senza risposta, paradossi, forme ossimoriche, profilate tra luci e ombre, neve e nebbia, alberi e boschi, una casa, i bordi di una strada, una natura morta con frutta e pinze, un mare assente. Questo artista, che porta il cognome di una pianta perenne delle Iridaceae, non ha mai cessato di formalizzare vertigini di senso e nonsenso, scrivendo e cancellando una filosofia quotidiana dell’essere. Infine, creando situazioni inconsumabili, attivando effetti di resistenza, ha trovato una superficie in cui riflettersi, un centro di gravità in cui sospendere, ad uno ad uno, i suoi pensieri.
Palazzo Tagliaferro – Contemporary Culture Center Andora (SV) Italia opening sabato 26 marzo 2016, ore 18.30