Erika Lacava
Il fotografo Pierluigi Fresia ci racconta come vive il suo studio, un punto in cui coagulare le idee della giornata e un luogo in cui portare a maturazione e compimento i suoi progetti.
Erika Lacava: Oggi non sempre si può parlare di uno spazio di lavoro fisso per un fotografo, ma credo che nel tuo caso la manipolazione delle opere e la profonda riflessione che le accompagna necessitino di uno studio.
Pierluigi Fresia: Sì, la mia fotografia mi porta a passare diverse ore in studio per la ricerca di immagini, la fase di scrittura, la catalogazione. Lo studio diventa un punto in cui coagulare le idee della giornata, un modo per portarle a maturazione e compimento. Ho sempre avuto uno studio, prima separato da casa, poi in seguito al trasloco unito, grazie al maggiore spazio a disposizione. E devo dire che in questo periodo di quarantena è stato una fortuna.
E.L. Vuoi parlarci del modo in cui hai lavorato durante questo periodo di Covid?
P.F. In questo periodo ho trascorso più ore in studio, ma, in genere, quando si ha troppo tempo lo si spreca! Quindi ho cercato di non esagerare. Non potendo uscire per fare nuove foto, ho recuperato scatti di due, tre anni fa, che hanno assunto un nuovo significato. Il mio lavoro è sempre così: ricavo il materiale dall’archivio, rielaboro cose sedimentate con il tempo. Non avendo progetti a breve termine (l’ultimo è stato per la fiera di Bologna con VisionQuesT4rosso) ho potuto lavorare in modo più autonomo, senza una scadenza temporale e senza tensione. Solo così ci si possono concedere sperimentazioni. Ho anche dipinto, come facevo ai vecchi tempi.
E.L. Che progetti hai sviluppato?
P.F. Ho lavorato molto con la lavagna proprio perché è in loco. Ho lavorato a un progetto nuovo, “JV”, che prende spunto da una riflessione sulle linee di forza e sulle traiettorie alla base dei quadri di Vermeer, che danno un’idea di paralisi, di luce sospesa. Il lavoro con la lavagna è molto rapido: scatto da cavalletto, sviluppo in camera chiara, ritorno alla lavagna ecc.
E.L. Ma è anche un procedimento lento, che dà un’idea metodica del tuo modo di lavorare. Lavori a ritmo costante e con orari prestabiliti?
P.F. No, non mi sono mai prefissato orari. A volte vengo in studio e non lavoro per niente, mi siedo e leggo, penso. Non pianifico mai il lavoro, sono un tipo mentalmente disordinato. Quando vengo preso dalla smania di un progetto allora lavoro di getto e senza sosta. Poi sottopongo le foto alla prova del giorno dopo.
E.L. Vuoi parlarci del progetto “Oggetti specifici” a cui hai preso parte ultimamente?
P.F. “Oggetti specifici” è un progetto sviluppato da Caterina Filippini che ha aperto uno spazio a Torino che si occupa non di opere d’arte finite ma di quello che c’è prima dell’opera: bozzetti, taccuini, prove d’artista. Caterina è passata in studio prima della quarantena, ha frugato nei cassetti e ha tirato fuori dei taccuini, sia recenti sia di dieci anni fa. Vedere i miei vecchi lavori ha fatto tornare in superficie temi che avevo dimenticato, ma che con un effetto carsico erano rimasti sempre lì, nascosti. Ho sempre guardato con stupore agli artisti che cambiano di frequente perché io sono convinto che i temi a cui siamo legati prima o poi ritornano. Torniamo tutti sempre allo stesso punto.
E.L. Quali sono le tematiche o le modalità che in quei taccuini hai riconosciuto come tipiche del tuo fare arte?
P.F. Negli schizzi a matita ho trovato inquadrature che uso ancora oggi, oltre al posizionamento dei soggetti e alla loro tipologia, che sono passati dalla pittura ai lavori fotografici. Avevo dimenticato di averli già incontrati anni fa, e mi stupiscono ancora oggi. È un fermarsi ad osservare sempre la stessa cosa come se fosse nuova, è un riscoprirsi ogni volta uguali e diversi, come se la mia mente trovasse i punti cardinali a cui appoggiarsi.
E.L. Per il format “Autoprogettazione” della Galleria Milano hai presentato un progetto con queste istruzioni: “Osservate immobili l’immagine riflessa nello specchio del quadrante dell’orologio, avrete così la possibilità di vedere uno spazio nel quale il tempo corre a ritroso. Più sarà duratura l’osservazione, più sarà sensibile il sapore dolce della vostra eternità”.
P.F. La mia intenzione era di fare un rewind, raccogliere il tempo come il nastro nelle cassette di una volta, per poter tornare indietro e recuperare un passo sbagliato. Il concetto del tempo a ritroso era presente anche anni fa in una mostra alla Galleria Martano di Torino: in ognuna delle tre sale avevo posizionato un orologio che segnava un’ora calcolata sulla base del tempo medio che uno spettatore impiegava per attraversare la sala precedente, in modo da dare l’illusione che il tempo in mostra si fosse fermato. Per “Autoprogettazione” volevo creare una piccola macchina del tempo a disposizione di tutti, da costruire semplicemente con un orologio e uno specchio. Nello specchio in cui la lancetta si riflette al contrario si apre un altro spazio, un’altra stanza in cui il tempo va indietro, e in cui vivi anche tu.