Francesco Tedeschi
Dove ci eravamo lasciati?
Questa domanda me la sono posta più volte, pensando alla mostra che Pierluigi Fresia sta progettando per Galleria Milano. Una domanda che nasce dal rendermi conto che dalla precedente mostra di Fresia nelle sale della Galleria sono trascorsi dieci anni e che le riflessioni svolte allora, e poi riprese per la pubblicazione realizzata per la successiva sua mostra nella Galleria Martano, si interrompevano alle opere di quel momento. Per molti motivi, non ultimo il fatto che questa esposizione è la prima senza Carla Pellegrini, anima e corpo della galleria, questa domanda mi riecheggia in testa da qualche tempo.
La domanda corrisponde però anche a una constatazione specificamente riguardante il carattere delle opere di Fresia, che spesso hanno a che fare con luoghi, per quanto a volte misteriosi e metafisici, in cui si è sollecitati a interrogarsi con le armi della memoria.
Soprattutto, però, essa viene a interrogare la consuetudine con le immagini condivise e i contatti che personalmente con Pierluigi ci scambiamo, cosa che mi fa sentire in continuo rapporto con il suo lavoro, tanto che sembra di essere sempre aggiornato sui suoi sviluppi. Invece, risulta necessario, nell’esercizio critico, interrogarsi sul posizionamento reciproco, per avvicinare le peculiarità delle opere, a distanza di qualche tempo.
Dunque, “dove ci eravamo lasciati”?
… da qualche tempo (anno) Fresia ha preso a incidere le sue realizzazioni fotografiche. Incidere nel senso di tracciare su di esse dei segni, manuali, apparentemente imprecisi, che possono avere la parvenza di un disegno o di un atto dissacratorio, che tende a negare se non l’immagine, almeno la sua bellezza, la sua incantevole perfezione. Il segno tracciato su alcune immagini sembra quasi avere il carattere della “biffatura” apposta alle tavole usate per le incisioni, affinché non vengano più utilizzate e rimangano solo come tracce delle matrici originarie. Se le leggiamo in questo senso, alcune delle realizzazioni compiute a partire almeno dal 2016 si connotano per un’azione iconoclasta, esercitata all’interno della stessa fotografia, immagine troppo intensa e compiuta, verrebbe da dire, per essere accettata come forma autosufficiente. La sua negazione, o parziale negazione, induce ad accoglierne la verità e la qualità solo attraverso una azione mediata, quella dell’autore che sembra rinnegarla, o negarne un portato immediato. Vero è, però, che i segni tracciati hanno un valore significante, a loro volta, non solo come incisione negativa, ma come forma aggiuntiva, su altro piano. Collocare in un cielo o in un paesaggio una traccia di un’altra cosa, una forma geometrica, la ripresa di un’immagine desunta da possibili altre fonti, costituisce un discorso parallelo, che necessariamente va a intrecciarsi con l’immagine originaria. Che la combinazione sia realmente connessa o sia frutto di una giustapposizione o di una sovrapposizione, essa va a inferire un doppio intendimento, tra il senso di una continuità fra immagini complementari o quello di una interferenza che modifica la sostanza immediata del piano visivo.
Di fondo, credo che Pierluigi, con il suo modo di intervenire sulle proprie fotografie inviti in primo luogo a non considerarle per il loro dato estetico, come belle fotografie, evocative, poetiche, nostalgiche. Il segno che le biffa o le modifica potrebbe essere un modo di negare quel tratto “romantico” che gli appartiene in un senso più profondo, della consonanza con un romanticismo riadattato e rivissuto all’interno delle dinamiche della contemporaneità, come poteva essere per gli autori americani di metà Novecento, secondo la lettura fornitane da Robert Rosenblum in un noto e importante saggio (Modern Painting and the Northern Romantica Tradition: Friedrich to Rothko, Thames and Hudson, Leipzig, 1975 – ed. ital. La pittura moderna e la tradizione romantica del Nord: da Friedrich a Rothko, 5 Continents, Milano, 2006). Un modo, però, per attribuire altre potenzialità di senso allo stesso “luogo” che compare nella forma fotografica, fino ad astrarre dalla sua componente iconica. Quello che vediamo non è mai (solo) ciò che vediamo. Quello che vediamo è punto di congiunzione fra una situazione, che può essere raccolta e documentata mediante il fenomeno fotografico, le sensazioni, i pensieri, le memorie che erano in quella scelta fotografica e tutte le altre considerazioni che si assommano in seguito, guardando l’immagine, che conserva traccia di un piano visivo solo incompletamente registrato dalla selezione compiuta nel passaggio dalla realtà all’immagine. In questo i gesti compiuti da Fresia sulla fotografia interrogano lo stesso piano del fotografico, lo rileggono e lo rimettono sotto nuova luce.
Intendiamoci, le opere fotografiche di Fresia sono, a mio avviso, sublimi, perché sanno essere forme assolute e nello stesso tempo interroganti. Non sono semplici immagini, ma forme di pensiero, frammenti di memorie che travalicano il visibile, diventano metafore e portati filosofici, anche per effetto del modo in cui l’artista le ha pensate e “confezionate”, attraverso i contenuti aggiunti, con i testi o con i segni che le completano (quasi sempre). Ciò nonostante, da anni, da quando ha preso a operare prevalentemente nell’ambito della tecnica “fotografica”, Fresia ha sempre inteso considerarla uno strumento, come in altri casi può essere il disegno, il dipinto o la nota a margine, come sono i suoi scritti. Eppure, l’immagine è stata ed è compagna di un modo di operare, oltre che di pensare e di sentire.
Ora, nel lavoro più recente, di cui questa mostra è una scelta testimonianza, quel rapporto tra segno e fotografia si va aprendo ad altre ipotesi ancora. Quelle indicate dalle singole opere e dalle correlazioni fra di esse.
Può essere evidente e quasi superfluo sottolineare che i segni presenti nelle opere più recenti siano ciò che rimane – e che viene reinterpretato e rimesso in gioco – di quel “discorso parallelo” creato dalle parole presenti in molti suoi lavori precedenti, quei messaggi che accompagnavano altre immagini, autonomi rispetto ad esse, per quanto parte di quel frammento spazio-temporale e in qualche caso talmente stringenti da poter essere compresi, impropriamente, come didascalie. Questo anche perché una direzione non esclude l’altra, non vi sono passaggi che richiudono alle spalle altre porte, ma solo soluzioni che aprono altre ipotesi possibili, nel dichiarare ogni lavoro parte di un complesso.
In questo caso mi pare che si possa definire in tre direzioni ciò che Fresia proporne. Da una parte la continuità e la sintesi proposta dal rapporto fra immagine e segno tracciato, dall’altra la meditazione sul segno nella sua qualità immediatamente visiva, nel rapporto tra la sua esistenza e la memoria di esso, e l’insistenza sul rimando logico esterno, con nuova formula. Nel primo caso l’attenzione va sulla singola opera, come in Afasia, immagine-tipo del lavoro in cui la situazione ripresa e raccontata è completata dal segno cancellante e strutturante. Un mazzo di fiori (di plastica?) sul margine del buio, in una condizione polverosa, memoria cimiteriale, con la traccia a “X” che ne limita la presenza iconica e sembra misurare le distanze rispetto al punto di osservazione. Oltre che l’attenzione per l’immagine in sé, la sensazione di ciò che evoca, dalla sua pregnanza di figura simbolica, entrano in gioco le molteplici suggestioni, per esempio qualche affinità con la copertina del disco dei New Order Power, Corruption and Lies, del 1983, via Fantin-Latour, per effetto del gioco del colore e di una certa sintonia di gusti. La definizione di “afasia” vi si può applicare proprio in relazione al carattere di incertezza e di sospensione che qualifica il rapporto tra l’immagine e la sua resa come “soglia”, elemento di passaggio fra la dimensione del tempo finito e di un indistinto infinito.
Altre opere vanno invece a toccare gli altri due momenti di un processo esemplificato da nuclei omogenei che calamitano l’attenzione di Fresia in tempi recenti. Uno è caratterizzato dai segni tracciati e cancellati su una lavagna nera. Questa può essere considerata come la rappresentazione di un “grado zero” dell’immagine fotografica, dove l’immagine coincide con un campo apparentemente nero e neutrale, per quanto effetto di una concentrazione su un campo che riserva sempre qualche residuo di tracce precedenti. Viene da domandarsi se tale forma di intervento – quella del gesso che traccia segni soggetti a cancellazioni, volontarie o occasionali – abbia il valore dimostrativo di un ulteriore stadio di riflessione sui segni apportati da qualche tempo all’immagine fotografica, espropriata di ogni connotazione ulteriore. Su questa superficie neutrale, priva di profondità, il segno rimane appeso, interrogante, fuori tempo – se viste in sequenza valgono sia come forme svolte in senso addizionale che sottrattivo – frammento di un intervento destinato all’inconsistenza, se non per effetto della registrazione fotografica. Qui è come se Fresia volesse concentrare l’attenzione sul segno senza immagine, prima e oltre il momento in cui esso stesso venga interpretato come immagine. Quel segno che trova qualche singolare affinità con l’ultima fase della produzione di Vincenzo Agnetti, quella delle “Photo-graffie”, dove sul campo nero dell’immagine annerita dalla luce il tracciato grafico riporta forme di carattere astratto o naturalistico, non solo per possibili vicinanze nel procedimento visivo, ma per la sua logica, di azione creante e cancellante al contempo, portata sul dato fotografico.
La lavagna è il campo e nello stesso tempo la mediazione dell’immagine, se ne comprendiamo così la presenza e la parvenza.
L’altro stadio ancora è quello che riprende un ulteriore aspetto dei discorsi paralleli che Fresia ha operato e opera con l’inserimento di segni figurativi o testuali nelle sue immagini. La serie “Ibidem”, che trova anch’essa in questa occasione la prima forma di presentazione, è un solo apparente abbandono al valore dell’immagine in quanto tale, perché la sua “impaginazione” la rende parte di un percorso invisibile, fatto di rimandi interni – gli ibidem delle note a pié di pagina – in cui l’insieme viene idealmente frammentato in particolari, in istanti di un fluire di cui la fotografia può essere sintesi, ma mai definitiva.
Dentro e fuori la ragione propria delle realizzazioni considerate per la loro compiutezza, l’opera di Pierluigi Fresia si conferma attraverso questi lavori come istigazione a una attiva partecipazione dell’osservatore alla disarmante complessità di ogni evidenza. Ogni lavoro, ogni momento, ogni ipotesi è parte di un tracciato che continua, e continua e continua…