Elena Re
Pierluigi Fresia si muove con disinvoltura in questo spazio – qui è di casa. È bello incontrarlo, perché ama l’incontro con gli altri e con il mondo. E la sua opera è vera, perché si fonda su questo sentimento. Molto spesso lui crea un dialogo tra fotografia e scrittura. Fotografa un oggetto che appare nel suo quotidiano per rivelargli qualcosa di importante. Poi, intorno a un concetto che gli affiora dal profondo, compone uno scritto. L’opera nasce da questo intreccio tra immagine e testo, ma va ben oltre. Perché ogni persona che guarda il suo lavoro raffronta le parole con le cose, trova un possibile nesso, entra in empatia, crea una storia. Lui allora si fa indietro e lascia parlare gli altri. La sua opera è una macchina per attivare racconti. Questo è un altro modo per incontrare l’infinito.
Osservo bene ciò che Pierluigi ha qui con sé. C’è un guanto casalingo, la slitta di un bambino, una vita. Leggo l’emozione racchiusa negli oggetti e ritrovo la mia. Penso a quell’infinito che le cose hanno il potere di innescare, ed ecco di nuovo le parole di Proust: «E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora (…) tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè». Adesso attraverso con lo sguardo il lavoro di tutti gli artisti, sono contenta. Ma sento che qualcuno sta ancora arrivando…