Elio Grazioli
A me sembra che Fresia abbia trovato una soluzione originale perfettamente rispondente alla sua poetica, nonché dai risvolti esteticamente rilevanti. Oggi peraltro, cioè nel periodo del lockdown, ma già in quello del risvegliato interesse per l’ecologia, la sua opera si carica di riflessi ulteriori.
L’originalità della soluzione individuata da Fresia è quella di aver messo in relazione immagine fotografica e parola in un modo diverso da quanto visto finora, un rapporto al centro di tanta arte dell’ultimo secolo, in particolare da quella detta concettuale in poi. Scrivere dentro l’opera o addirittura sopra l’immagine crea un effetto straniante e strabiliante che egli sa sfruttare al massimo. Un effetto poetico innanzitutto, come una sorta di versione contemporanea dei dipinti orientali con haiku integrato nella composizione. Fresia lo ha saputo portare a un punto particolare in cui le parole, le brevi frasi, sembrano nascere insieme all’immagine, come un pensiero che scaturisce davanti a ciò che l’artista vedeva in quel momento e che ora vediamo noi. Lo scatto fotografico diventa così uno scatto di immagine e pensiero al contempo: ancora una volta ci si permetterà il gioco sull’etimologia della parola “fotografia”, che è proprio “scrittura di luce”, qui dunque in un senso che unisce la scrittura verbale a quella della luce. D’altro canto, al centro dell’insieme che ha selezionato per questa mostra si noterà che Fresia ha messo un nucleo che riporta come testo la velocità della luce, che da questo punto di vista diventa anche la misura della simultaneità di visione e pensiero.
Con questa premessa tutto ci appare singolare in queste opere. I paesaggi, o dettagli di paesaggio, non sono solo un genere o l’illustrazione della natura, ma diventano la “scenografia del pensiero”, come la definisce Fresia stesso. “Scenografia” credo qui abbia questo significato, non solo di scena, cioè di contesto dove ci si trova meglio a pensare, ma di “scrittura scenica” del pensiero stesso. Certo, nella natura, nel paesaggio si pensa diversamente: c’è, se non una critica esplicita, un richiamo alla differenza rispetto alla città, ma è soprattutto la restituzione della solitudine come ricerca di uno scavo, a volte anche forte nei toni, dentro il pensiero, dove il pensiero si fa a sua volta luogo, paesaggio. “Scenografia” diventa così anche scena della scrittura, del farsi scrittura del pensiero come simultaneità di immagine e parola.
D’altro canto questo pensiero è di un tipo speciale, che avviene in determinati momenti e in determinate situazioni. Il paesaggio, la natura è qui la scena che restituisce meglio il rovesciamento tra il dentro e il fuori, il trovare fuori quello che rispecchia il dentro. Ciò che vedo mi si lega a ciò che sto pensando in modo tale che ne sembra insieme la causa e l’illustrazione. Allora è come se mi guardassi da fuori: mi vedo come un altro che sta pensando, proprio lì. Così questa solitudine ricercata nei luoghi distanti dalla presenza umana non è un vezzo o un residuo psicologico, ma è la condizione necessaria per la restituzione visiva di questo particolare tipo di pensiero.
Ma quali pensieri, insomma? Ebbene, quando si scava, e non si cercano scorciatoie o autogiustificazioni, si rischia e ci si espone molto. Così quelli di Fresia non sono solo pensieri idilliaci, anzi spesso sono duri. “I wanna get better / I want to kill everyone / Close to me” figura sopra un albero rovesciato e immerso nella nebbia: altro che solitudine, qui è fare piazza pulita! Ma “Close to me” è scritto in bianco come la nebbia, e insieme come la luce. E ancora: “Mener une offensive” è scritto sopra una fila di alveari come schierati per una battaglia e “offensive” è scritto con lettere degli stessi colori degli alveari.
D’altro canto, “You don’t even know my name” è scritto sull’immagine di un altro albero solitario che spunta dalla neve, e “Why do you have dreaming?” e “How can I make sense of the world?” sembrano domande metafisiche: Sogniamo? Come dare un senso alla realtà? Forse le risposte stanno nelle altre opere: “Everything that exists, everything has existed, and everything will exist” è la realtà, e “A di ape / E di erba / I di imbuto / O di oca / U di uva” è il senso. Oppure in quelle due immagini che, stranamente in Fresia, non hanno frasi: in una c’è un uccello finto, nell’altra un covone rovesciato. O ancora, e soprattutto, nella sequenza di quelle che hanno la scritta con la velocità della luce, che si concludono con “In 1975 when I was thirteen the speed of light was 2999792458 m/s”, che riconduce una misura assoluta a un’età relativa e personale.
In che senso queste possono essere o contenere delle risposte? Nel senso, vorrei dire, del “sublime”, che è l’ultimo aspetto evidente delle opere di Fresia che vorrei legare a queste mie osservazioni. Il sublime è il senso del sopravanzarci della realtà, più grande e potente di noi esseri umani, ma non solo, è anche il senso di questo pensiero che a volte vediamo fuori come integrato nella realtà stessa. Anche esso ci sembra in altro modo sopravanzarci. La velocità della luce, anche da questo punto di vista, sembra condensare in sé questi due sensi, queste due direzioni. La luce è la condizione della visibilità e la misura dell’esistenza, è la fisica ed è la spiritualità, la sua velocità è forse una sorta di limite anche dell’immaginazione, l’indicazione di una vertigine, di una trasfigurazione. Penso ancora a “Close to me” scritto in bianco e mi sembra di poter dire che mentre l’immagine fotografica è illuminata, riceve la luce da fuori, le frasi possono sembrare uscire come altra luce da essa, come una scintilla e un respiro, dice il poeta, di quell’essere immerso e al tempo stesso esiliato che è l’uomo.
Mi scrive da parte sua Fresia: “In alcune opere recenti anche il rimando al pensiero svanisce, rimane solo l’indicazione numerica della velocità della luce, la velocità di quel flusso ininterrotto del reale che cerca solo di scontrarsi con qualcosa o qualcuno che possa di lui farsi testimone. A noi umani compete solo lo sguardo terribile di Orfeo che nell’atto stesso di testimoniare perde il soggetto testimoniato, gettandolo irrimediabilmente nell’abisso senza fondo del tempo”. Forse occorre pensare anche questo quando si pensa alla natura, al paesaggio come un patrimonio.